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Covid, agricoltura. La legalità per battere il caporalato

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Con la chiusura delle frontiere causa Covid-19 i campi questa primavera rischiano di restare deserti e rischiano di marcire enormi quantità di cereali, ortaggi, frutta.
Bisogna correre ai ripari e bisogna farlo rapidamente.
E visto che ci siamo, bisogna sfruttare questa emergenza per cambiare le cose, per regolarizzare i braccianti che lavorano in nero o a cottimo, per dare dignità e diritti a tutti gli uomini e le donne che si spaccano la schiena per farci arrivare il cibo in tavola.
Bisogna anche fare altro, come rivalutare la produzione agricola a chilometro zero e mettere un freno allo strapotere della grande distribuzione alimentare, a vantaggio dei produttori e dei lavoratori.
Questa emergenza di offre una grande occasione. Sarebbe un delitto non coglierla.

Covid, agricoltura. La legalità per battere il caporalato

Duecentocinquanta anni fa il filosofo francese Joseph Joubert scriveva: «Stento a lasciare la campagna perché mi devo invece separare da me stesso».
Oggi, nel 2020, le campagne rischiano seriamente di essere abbandonate.
La pandemia Covid-19 ha costretto centinaia di milioni di europei a restare a casa. Proprio in primavera. Proprio in periodo di raccolto.
L’agricoltura in Italia vale 35 miliardi di euro, il 2,2% del Pil e il 5% del totale degli occupati.
1.150.000 aziende agricole. La maggior parte di piccole dimensioni. La maggior parte al lavoro nei campi in Puglia, Sicilia, Calabria e Campania.
È tempo di raccolto.
È tempo di mettere a rendita il lavoro svolto durante tutto l’inverno.
Alcuni esempi di raccolto primaverile.
Le arance, soprattutto in Sicilia, di cui l’Italia è il quinto produttore mondiale
Le fragole, in Campania e Basilicata.
I kiwi nel Lazio.
I limoni, soprattutto in Calabria, di cui noi siamo il più importante produttore del Mediterraneo.
Le mele in Trentino.
Le pere in Emilia-Romagna. Siamo i secondi produttori mondiali.
Le ciliegie, soprattutto in Puglia. Quarti produttori al mondo.
Lo zucchero estratto dalle barbabietole, in Emilia-Romagna.
Gli asparagi, in Trentino-Alto Adige. Siamo i terzi produttori europei.
I carciofi, in Puglia.
I fagiolini e gli spinaci, in Campania.
I ravanelli nel Lazio. 3 milioni e mezzo di mazzetti a settimana.
Il grano pugliese. L’Italia è il secondo produttore mondiale.
Ogni anno in primavera 370.000 stranieri regolari affollano i campi agricoli del nostro Paese.
Ogni anno in primavera 200.000 stranieri irregolari affollano i campi agricoli del nostro Paese.
Al posto degli stranieri e degli irregolari questa primavera, invece, è arrivato il coronavirus.
E così la frutta rischia di restare appesa agli alberi. E gli ortaggi e i cereali nel terreno.
Cibo che serve per sfamare milioni di italiani e milioni di cittadini europei. Cibo che serve per sfamare milioni di animali.
Miliardi di euro che rischiano di svanire in un virus, gettando in miseria un milione di famiglie.
O si attende che la Romania, l’Albania, la Polonia, la Bulgaria, la Slovacchia, la Moldova (e l’Italia) riaprano le frontiere, oppure bisogna trovare una soluzione alternativa.
In questo momento in Italia ci sono quasi seicentomila immigrati irregolari.
I due decreti sicurezza hanno trasformato mezzo milione di immigrati richiedenti asilo in altrettanti immigrati irregolari. Una moltitudine di persone che non hanno nemmeno più dove stare, da quando sono stati chiusi gli Sprar. Un esercito in pasto alla criminalità organizzata.
Cosa Nostra, Ndrangheta, Camorra, Sacra corona unita. Ognuna di loro ha beneficiato di questa fiumana di zombi, spinta nelle loro braccia dallo Stato.
In questo momento in Italia ci sono 90.000 persone che dormono in città fantasma di braccianti, dove vige solo la legge della mafia. In quei luoghi non vengono rispettate le condizioni sanitarie e igieniche, nessuna misura di distanziamento. Sono dei potenziali focolai. Sono un rischio per loro e per noi.
Alcuni esempi? La baraccopoli che sorge vicino all’ex Cara di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. Come sempre nel foggiano il Gran Ghetto che si trova nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico, o i ghetti di Borgo Tressanti e Borgo Libertà nelle campagne di Cerignola, Cicerone a Orta Nova.
Tutti posti insalubri.
Sempre più i pronto soccorso degli ospedali di Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Foggia, Palermo, sono affollati da immigrati contagiati dal virus.
Se si vuole tenere sotto controllo il virus e non rischiare l’ondata di ritorno dell’epidemia bisogna trovare degli alloggi a queste persone. E magari, perché no, un lavoro.
Tanto si sa già che pochissimi di questi tornerà al proprio Paese. È già difficile rimpatriare le persone in tempi normali, figuriamoci in tempi di coronavirus.
Nell’ultimo decennio i datori di lavoro si sono spostati sulla manodopera migrante perché costa poco.
Tutte le politiche migratorie a partire dalla Bossi-Fini si sono basate sul fatto che bisogna far venire i migranti per lavorare, magari nei campi.
Dunque, se si portasse la legalità tra i migranti, si potrebbe parlare finalmente di legalità anche per l’agricoltura.
Quale miglior occasione di questa primavera.
Quale miglior occasione per poter salvare il raccolto, i posti di lavoro e le imprese.
Perfino la Coldiretti ha ufficialmente chiesto di poter regolarizzare i migranti al momento irregolari.
Mezzo milione di braccia potenzialmente disponibili per tentare di salvare l’agricoltura.
Non è tutto.
Il 50% dei braccianti agricoli in Italia lavora in nero. Soprattutto al Sud. In Puglia, in Calabria, in Campania e in Sicilia il fenomeno è diffusissimo. Soprattutto nelle provincie di Foggia, Trapani, Ragusa, Crotone, Cosenza, Napoli e Caserta.
Oltre 30.000 aziende agricole fanno uso di manodopera in nero, tramite la rete del caporalato.
Quello del lavoro irregolare e del caporalato agricolo è un business che vale cinque miliardi di euro. Quello delle agromafie è un giro d’affari illegale secondo solo a quello della droga.
E così è accaduto che in provincia di Foggia il ministero dell’Interno ha dovuto aprire una sede della Dia.
Il 47% dei braccianti sono extracomunitari.
Poi ci sono gli invisibili. Altre centomila persone. Inutile dire che si tratta di lavoratori sottoposti a grave sfruttamento: nessuna tutela e nessun diritto garantito dai contratti e dalla legge. La paga media giornaliera è  tra i 20 e i 30 euro. Tre euro per un cassone da 375 chili.
E ancora. I lavoratori sotto caporale devono pagare a questi ultimi 5 euro per il trasporto, oltre che beni di prima necessità, come l’acqua, Un altro euro e mezzo. Un’enormità per chi ne guadagna 20 di euro.
Quattro anni fa è stata approvata una legge sul caporalato. Ma dopo quattro anni non ci sono ancora i decreti attuativi. Al momento la parte della legge che funziona al meglio è quella repressiva. Ma il caporalato non si risolve solo con la repressione, ma anche con la prevenzione.
Quale migliore prevenzione di togliere dal mercato l’oggetto su cui si basa l’intera filiera del caporalato?
È necessario fare una grande operazione che regolarizzi tutti. Italiani e stranieri. Che ponga tutti i braccianti sotto il cappello protettivo dei contratti collettivi agricoli.
I prezzi dei produttori saliranno di poco? Oltre a essere cosa giusta, è uno scotto necessario da pagare per poterci definire Paese civile.
I produttori non stanno raccogliendo i loro prodotti non solo perché manca la manodopera ma anche perché li venderebbero a poco troppo.
Il dominio della grande distribuzione ha imposto ai produttori agricoli prezzi sottocosto. Il produttore, di conseguenza, per poter essere competitivo si trova quasi costretto ad abbassare salari e tutele. E, se non basta, a rivolgersi al lavoro nero, a rivolgersi ai caporali.
Questa ripartenza offre l’occasione di rimettere in discussione l’intero sistema.
Per farlo bisogna rendersi conto che esistono quattro attori nella filiera agricola: produttori, lavoratori, distributori e consumatori. E che questi ultimi hanno forse il peso specifico maggiore.
È apparso chiaro a tutti con la battaglia, vinta, sull’olio di palma. I consumatori, più di chiunque altro, possono imporre le loro regole perfino alla potentissima grande distribuzione alimentare.
Perché una filiera agroalimentare sostenibile potrà esserci solo se si sensibilizzano i consumatori, magari attraverso un bollino etico da applicare a tutti i prodotti. Un bollino che segnali la tracciabilità della filiera, che tenga conto del rispetto dell’ambiente e del rispetto dei lavoratori.
Perché i consumatori devono diventare consumatori consapevoli. E i produttori devono essere pagati col prezzo giusto, e così i lavoratori. Bisogna ridare dignità alle aziende agricole.
E il prezzo dei prodotti va indicato dai produttori, non dalla grande distribuzione. Il prezzo deve tenere conto del costo del lavoro.
Se si osserveranno tutte queste regole, se si sfrutterà l’opportunità offerta dal dramma del Covid-19, anche i migranti potrebbero essere inseriti in un circuito di lavoro legale, potrebbero essere tirati fuori dai ghetti, dalle baraccopoli, strappati dalle grinfia delle mafie.
Infine, l’emergenza Covid ci sta dando un altro grande insegnamento. Le filiere produttive troppo lunghe rendono l’economia instabile, la sopravvivenza di una società a rischio.
Lo stiamo sperimentando in queste settimane. Troppi prodotti dipendono da ciò che accade negli altri Paesi, dipendono dall’efficienza delle grandi rotte commerciali e dall’apertura massima delle frontiere.
Se l’Italia fosse stata meno dipendente dal resto del mondo il contraccolpo generato dalla pandemia sarebbe stato inferiore.
Oggi ci stiamo rendendo conto di quanto sia assurdo far arrivare le fragole dall’Argentina, il pesce dal Giappone, l’olio dalla Tunisia, il vino dalla California, la carne dal Brasile, il grano dal Canada.
Oggi ci stiamo rendendo conto quanto sia importante sviluppare, incentivare l’agricoltura del chilometro zero.
Albert Einstein diceva che le grandi emergenze offrono grandi opportunità.
Quale miglior occasione per onorare la memoria del più grande scienziato di tutti i tempi?


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