Chi di noi non ha gettato un occhio – magari tra uno scroll e l’altro – a qualche “libro” autopubblicato sul web che, ai tempi miei, qualsiasi professore di liceo avrebbe bocciato senza esitazione, o rimandato indietro per una seria revisione?
E non parliamo poi degli studi accademici: lì, certe “tesine” non sarebbero state utilizzate neppure per accendere la stufa dell’assistente alla cattedra.
Eppure eccolo lì: copertina patinata, 278 pagine (ma si legge in un’ora), e scritto da quel tizio che “ha deciso di raccontare la verità” — sulla pandemia, sull’economia, o sul misterioso mistero delle matite colorate.
Siamo in un’epoca in cui la differenza tra “tesina dell’ultimo minuto” e “libro in catalogo” si assottiglia più velocemente del mio entusiasmo per leggere le note a piè pagina.
Primo baffo di ironia: il cognome conta
Hai il cognome “giusto”? Benissimo — sei già quasi giornalista, forse autore. Parente? Ottimo — la fotocopiatrice è pronta. Perché sembriamo trovarci in una sorta di “heritage publishing”: “mia zia era caporedattrice, mio cugino ha fondato il blog, io pubblico un libro” – tutto legittimo, ci mancherebbe; ma quando il titolo del libro è pieno di inesattezze, le fonti risalgono al gruppo WhatsApp della zia, e la diatriba microbiologia vs virologia si è persa alla pagina 4… beh, qualcosa stona.
Capita talvolta di imbattersi in autori, spesso giornalisti che hanno perso l’impiego al giornale, che scelgono la via dell’auto pubblicazione per finanziarsi proponendo il “libro-rivelazione” del momento. Il fenomeno non è raro, un persona spinta dalla necessità e dal desiderio di notorietà cerca una via per ottenere facile consenso e nuove forme di reddito. Talvolta, dietro queste operazioni editoriali, si nasconde maggiormente l’ambizione di “raccontare una storia” che la volontà di indagare realmente i fatti. L’indagine è costosa, faticosa e lunga e non sempre porta a risultati “scientificamente” accettabili. Spesso alle persone basta vedere centinaia di pagine su un argomento per percepire autorevolezza e il solo fatto di avere a che fare con qualcuno che, in qualche modo, sa scrivere è sufficiente.
Prima di tutto: vendere
In alcuni casi, il testo nasce costruito su suggestioni e supposizioni che si travestono da inchiesta. Eppure, nonostante errori o ingenuità evidenti, l’opera riesce a trovare un pubblico e quindi quindi mercato, anche vasto in certi casi, attratto più dal tono sensazionalistico che dal rigore del contenuto. Basta pensare al grande successo editoriale di “We Never Went to the Moon: America’s Thirty Billion Dollar Swindle”, pubblicato nel 1974 da Bill Kaysing. Kaysing è considerato il padre del “complottismo” moderno ed era un impiegato che pur non avendo alcuna competenza tecnica specifica in ingegneria aerospaziale ha generato enorme curiosità, ed emulazione, pur non potendo mai fornire alcuna prova concreta al di la delle proprie supposizioni.
È l’effetto di una comunicazione dove il titolo giusto, una copertina d’impatto o la promessa di rivelazioni inedite e scioccanti possono contare più della competenza o della verifica delle fonti.
Questo meccanismo non è nuovo: la storia dell’editoria è costellata di esempi simili, da romanzi spacciati per reportage a “inchieste” che vengono costruite come fiction. Ciò che sorprende non è tanto la loro esistenza, che credo renda colorata e divertente la nostra vita. Ciò che fa riflettere è la fiducia con cui queste teorie vengono accolte.
Bisogna riflettere e tenere a mente quanto sia facile confondere la narrazione , l’opinione e la fiction con la conoscenza e i processi cognitivi e sottolineare quanto sia importante, oggi più che mai, comprendere il valore del metodo, della verifica delle fonti e della responsabilità che si deve avere quando si decide di voler discernere sula realtà.
Ovviamente questo discorso vale anche — e forse ancor di più — per i documentari e i video diffusi su YouTube o in DVD. È importante ricordare che esistono vere e proprie produzioni professionali che realizzano contenuti falsi, o meglio, film costruiti su ipotesi solo “possibili”, ma privi di alcuna prova concreta, e che spesso sono tecnicamente ben fatti.
In molti casi, queste produzioni specificano tra i titoli di coda, in caratteri non troppo leggibili, che i contenuti sono di natura ipotetica e non supportati da evidenze, autoescludendosi così da qualsiasi responsabilità.
Uno degli esempi più curiosi fu “Sirene il Mistero Svelato” , un documentario che “rivelava” l’esistenza delle sirene. Il film, costruito come un’inchiesta scientifica, era in realtà una produzione dichiaratamente fittizia, realizzata da una casa specializzata in docu-fiction provocatorie. Nonostante ciò, il caso arrivò addirittura in discussione in Parlamento, a Palazzo Chigi, sollevato da un deputato poco informato che, evidentemente , non aveva guardato i titoli di coda.
Sirene il Mistero Svelato è trasmesso da Discovery Channel, ed è un prodotto dichiaratamente fake, di quei film che fa finta di essere un inchiesta ma di fatto i cosiddetti esperti che appaiono sono tutti attori. Nonostante le ripetute e ufficiali smentite del NOAA e della Marina degli Stati Uniti, una rapida ricerca online mostra come una notevole percentuale di spettatori resti tuttora convinta che tutto ciò sia reale.
Queste produzioni incassano spettatori e denaro, sono delle vere e proprie “macchine” per l’intrattenimento. Contano, naturalmente, sul fatto che pochi spettatori leggano i titoli finali, e ancora meno prestino attenzione alle note scritte in piccolo.
È da ricordare il caso emblematico del celebre “The Blair Witch Project“, un film ibrido che seppe fondere finzione e realtà in modo innovativo. Durante la produzione, venne infatti lanciata una campagna di marketing presentata come una vera indagine su un gruppo di giovani scomparsi mentre giravano un documentario nei boschi del Maryland.
I produttori, tuttavia, furono corretti: al momento dell’uscita nelle sale, il film venne promosso apertamente come un’opera di genere horror, non come un documentario. Solo in seguito si chiarì che le presunte “prove” e i materiali diffusi online facevano parte di una trovata pubblicitaria studiata ad arte dagli autori — una delle prime e più riuscite campagne di viral marketing della storia del cinema.
Secondo baffo: l’auto-pubblicazione e l’AI
Ora, non fraintendetemi: l’auto-pubblicazione (o “self-publishing”) è una formidabile opportunità. Come segnala ad esempio un articolo dell’Internazionale, grazie a piattaforme come KDP di Amazon, ogni persona può pubblicare il proprio libro senza passare per l’editore tradizionale.
Una rivoluzione democratica, certo.
Ma — c’è sempre un ma.
Un articolo di “Agenda Digitale” avverte che la facilità di pubblicare, unita all’uso dell’intelligenza artificiale generativa, ha trasformato il settore in una “battaglia algoritmica”: contenuti prodotti in massa, spesso senza editing, senza verifica, e con un livello qualitativo da brividi.
Anche Land Editore denuncia il fenomeno del self-publishing selvaggio: libri pubblicati senza correzione di bozze né revisione, che rischiano di affossare la credibilità dell’intero sistema editoriale.
E se serve un’equazione per riassumere il tutto, eccola:
Tesina di fine anno + cognome altisonante + click su “pubblica” = Libro in vendita § Soldi
Insomma: il fatto che sia facile pubblicare è una bella cosa; ma il fatto che sia troppo facile – senza editing, senza controllo – rischia di abbassare la qualità percepita dell’intero settore. (landeditore)
Terzo baffo: la conseguenza per lettori, editori, autori seri
Quando le librerie digitali si riempiono di “libri-tesina”, succede che: prima di tutto i lettori diventano diffidenti.
Come nota Eleonora Scali, la pubblicazione sbagliata genera un effetto boomerang su tutto il mercato. Di conseguenza gli autori seri, che studiano e si documentano, finiscono penalizzati. E come accade in casi come questo i più furbi, gli editori “senza scrupolo”, prosperano: chiedono contributi agli autori, stampano poche copie e si fregiano del titolo di “casa editrice”.
Il risultato? Una marea di “inchieste”, “manuali” e “analisi” scritte da chi — se dovesse sostenere un esame di terza media — forse chiederebbe aiuto a ChatGPT.
Cosa succede se l’ecosistema editoriale si riempie di “libri-tesina” senza filtro? I lettori diventano diffidenti: «Tutto è self-published, e quindi magari è fatto male».
E il lettore? Beh, oggi si moltiplicano quelli che “leggono” solo i titoli, i grassetti e i cartelli sotto le immagini, convinti di aver colto l’essenza del contenuto. Poi magari comprano il libro pensando di portarsi a casa un’inchiesta, e invece si ritrovano con una tesina infiocchettata. Li riconosci subito: sono ovunque, attivissimi, pronti a protestare sui social, in qualche locale o in piazza perché “ora sanno” — o meglio, hanno sfogliato qualcosa, o sentito dire alla presentazione di qualcun altro che ne sapeva di più.
Nel frattempo, la parola “fonte autorevole” è sparita dal loro vocabolario, sostituita da un più pratico “l’ho letto su internet” o lo ha detto nell’ultimo podcast.
Quarto baffo: un invito alla riflessione
Immagino i miei vecchi professori delle medie e del liceo (e già loro sarebbero sufficienti senza scomodare i baroni all’università) inorriditi di fronte a certe “pubblicazioni”, che si rigirano nella tomba al pensiero che una tesina di allora “a malapena sufficiente” oggi passi in catalogo letterario.
Non serve demonizzare la self-publishing: è un mezzo straordinario se usato con serietà. Non è una condanna totale della self-publishing — anzi, credo che sia una grande democratizzazione della cultura. È però un richiamo alla responsabilità: chi scrive dovrebbe farlo con competenza, onestà intellettuale e un minimo di verifica. E chi legge dovrebbe magari alzare un po’ le antenne quando vede “autore-giornalista” se ha l’editore che è l’amico del cugino del padre.
Serve una cultura del rigore, dell’onestà intellettuale e — perché no — del buon senso. Chi scrive deve sapere di cosa parla. Chi legge dovrebbe accendere il radar del dubbio.
In un mondo meno conflittuale chi pubblica, magari, dovrebbe ricordarsi che la libertà di stampa non significa libertà di spacciarci tesine copia e incolla da fonti non controllate e rimodulate come saggi di geopolitica.
Conclusione (seria, ma non troppo)
Questo fenomeno non è solo divertente (o amaro, a seconda del punto di vista), è serio: riguarda la qualità della conoscenza, la credibilità del mondo editoriale e, in fondo, il nostro rapporto con ciò che leggiamo.
Perché se tutto diventa “tesina in libreria”, rischiamo che la distinzione tra “scrivere bene” e “pubblicare tanto” scompaia
Il fenomeno è buffo ma pericoloso: stiamo assistendo alla frantumazione della conoscenza tra social, auto-edizioni e algoritmi.
Più una storia è “shock” o “complottista”, più si diffonde.
Il criterio non è la verità, ma la viralità.
Come cantava Califano:
“Tutto il resto è… noia.”

Ecco, la noia — quella vera — è leggere libri-tesina che pretendono di spiegarci il mondo.
Fonti, riferimenti e qualche dato per chi ama ancora la verifica
Non è solo una mia impressione da nostalgico dei tempi bui: il fenomeno dell’auto-pubblicazione senza controllo è ormai documentato da diverse analisi.
Un rapporto di Technavio stima che il mercato globale dell’editoria crescerà di circa 19,37 miliardi di dollari tra il 2024 e il 2028, con un forte impulso proveniente dall’aumento degli autori indipendenti e dall’adozione dell’IA. PR Newswire
Un’analisi su FT Strategies rivela come l’IA e i dati stiano trasformando l’industria del libro: da strumenti che aiutavano, oggi a un punto dove «chiunque – Taylor Swift inclusa – può pubblicare un libro dalla camera da letto in meno di sei mesi». ftstrategies.com
Un’indagine dell’Alliance of Independent Authors evidenzia un fenomeno chiamato “ghostwriter IA”: molti autori self-published rischiano di diventare vittime dell’onda crescente dei libri generati o “assistiti” dall’IA, con effetti negativi sul mercato e sulla credibilità. Jane Friedman
Un articolo di Spines Publishing (e relativo blog) descrive come l’IA stia cambiando ogni fase dell’editoria — editing, copertina, distribuzione — ma avverte che l’utilizzo dell’IA non sostituisce la creatività umana e che si corre il rischio di produrre contenuti “piatti”. Spines
Il Blog di Eleonora Scali sottolinea che la pubblicazione sbagliata ha effetti diretti sulla percezione del pubblico e sull’intero mercato editoriale, perché “quando tutti possono pubblicare, non tutti dovrebbero”.
Bibliografia essenziale
Alice Facchini, L’autopubblicazione sta cambiando l’editoria, Internazionale, 11 novembre 2022.
Redazione Agenda Digitale, Self-publishing su Amazon: contenuti AI e truffe rovinano tutto, Agenda Digitale, 2024.
Land Editore, Perché il self-publishing selvaggio senza editing è l’apocalisse dell’editoria, 2023.
Eleonora Scali, I risultati della pubblicazione sbagliata nell’editoria self-publishing, Eleonora Scali Blog, 2023.






