Un tempo si parlava di certe forme ideologiche come strumenti di compensazione simbolica, capaci di lenire le tensioni sociali e mantenere l’ordine attraverso un’illusione condivisa. Celebre fu l’idea secondo cui la religione fungesse da “oppio dei popoli”: una visione che non intendeva negare la spiritualità, ma piuttosto mettere in luce il suo ruolo sistemico in un contesto di dominio e alienazione. Tuttavia, chi sosteneva questa tesi immaginava un’alternativa collettiva, forse autoritaria, ma fondata su un pensiero sociale e su un’idea di emancipazione dal basso. Non certo su una libertà personale intesa come fine ultimo e isolato della felicità.
Nell’epoca post-sovietica e post-ideologica, il termine “consapevolezza” ha progressivamente assunto un valore paradigmatico: è diventato il vessillo di una rinascita individuale, specialmente tra coloro che hanno visto erodersi il proprio potere d’acquisto o la propria autostima. In un mondo in cui i grandi racconti religiosi e politici si sono sgretolati, ciò che resta da inseguire è un ideale di libertà personale, spesso assolutizzato. Ma tale ideale, in assenza di strutture di sostegno collettivo, rischia di lasciare indietro proprio quelle persone che più avrebbero bisogno di strumenti – culturali, relazionali e materiali – per affrontare la propria vulnerabilità all’interno di un sistema fortemente individualista.
Oggi potremmo serenamente aggiornare la frase con “la consapevolezza è l’ayahuasca dei popoli postmoderni”. Ti dà le stesse allucinazioni, ma con meno vomito (fisico).
Il dramma non è tanto chi cerca di essere consapevole — gesto nobile, persino utile — ma chi giura di esserlo diventato, di averlo finalmente capito. L’illuminazione, signori, pare sia giunta tramite un workshop di due ore, 89 euro con brunch vegano incluso.
E dopo? Dopo che uno è “consapevole”, cosa succede? Nulla, in teoria. Ma in pratica, si trasforma. Comincia a parlare per frasi brevi, profonde, alternate da silenzi drammatici. Spesso ti guarda come se tu stessi ancora vivendo nel sonno e lui no, lui invece è sveglio. Svegliato, anzi. Illuminato dalla verità, dalla conoscenza, e soprattutto dalla luce frontale dell’iPhone 14.
L’illusione del controllo
Ma da dove viene questa smania di consapevolezza? Forse dal desiderio antico di controllare il caos. In fondo, chi è convinto di aver raggiunto la consapevolezza è anche convinto che il resto del mondo lo stia prendendo in giro. Il traffico, i vicini, la suocera, la banca, l’universo intero: tutto è una messinscena per fargli perdere il centro. Ma lui no, lui non ci casca più.
Perché ha letto Eckhart Tolle (almeno la quarta di copertina).
“Il vero sapere sta nel sapere di non sapere nulla”, diceva Socrate. Ma oggi chi la sa più lunga è proprio chi si ostina a mostrarti il certificato di partecipazione al corso di mindfulness avanzata e ti dice: “Lo capirai anche tu, prima o poi.”
Ecco, magari no.
Dunning-Kruger in versione zen
Non è solo un problema filosofico. È anche cognitivo. Esiste un fenomeno noto come effetto Dunning-Kruger, secondo cui le persone con meno competenze tendono a sovrastimarsi.
Ora, immaginate questo effetto… con un tappetino yoga e una campana tibetana.
Boom.
Avete il ritratto di chi, dopo due meditazioni guidate, ha deciso che può insegnarti a vivere.
Del resto, come diceva lo scrittore Charles Bukowski (sì, lui, quello che beveva e bestemmiava con consapevolezza):
“Il problema del mondo è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.”
La vera consapevolezza? Socratica, grazie.
Sia chiaro: la consapevolezza esiste. Ma è tutt’altra roba. Non è uno stato di beatitudine raggiunto a colpi di post motivazionali. È più simile a un’umile constatazione:
non sappiamo quasi nulla.
Il filosofo francese Montaigne, nel XVI secolo, scriveva:
“La più certa scienza che abbiamo è che non sappiamo nulla.”
Ecco la consapevolezza autentica: quella che non pretende, non ostenta, e soprattutto non cerca adepti.
Perché la vera consapevolezza non è un badge, un piano editoriale o una bio su LinkedIn.
È un processo continuo, fatto più di domande che di risposte, e più di dubbi che di verità.
In conclusione (ma consapevolmente)
Se qualcuno vi dice di essere arrivato alla consapevolezza, chiedetegli “ma poi sei ripartito?”
Perché chi si sente arrivato, di solito, si è solo parcheggiato.
La verità è che siamo tutti apprendisti dell’esistenza, e diffidare da chi si professa maestro è, forse, il primo vero atto di consapevolezza.
Consapevolmente vostro,
Il dubbioso di turno