Non chiamatela più festa, perché non è. Non lo è più. Forse non lo è mai stata davvero. Pensare al Primo Maggio come a una celebrazione è oggi non solo un equivoco, ma un insulto alla memoria storica di chi ha lottato, e spesso è morto, per diritti che oggi ci sembrano “naturali”, ma che naturali non sono. Sono frutto di conflitti, di coscienze collettive, di intelligenze solidali, non di selfie, like e indignazioni a tempo determinato.
Quella che un tempo fu una data che ricordava una tragedia e che alimentava lotta e consapevolezza, oggi somiglia sempre più a una carnevalata. Un momento di sfogo rituale concesso dai padroni di sempre – che non sono più figure con bastone e cappello a cilindro, ma algoritmi, manager, investitori apolidi – affinché il popolo oppresso possa sfogarsi, illudersi di essere libero, e tornare in silenzio il 2 maggio. Un po’ come il carnevale nell’antichità: una breve sospensione della gerarchia per rafforzarla meglio il giorno dopo.
Non si muore più di fame – ed è vero, per fortuna – ma si vive svuotati. Questa conquista non è piovuta dal cielo, ma è frutto della lotta di soggetti collettivi, senzienti, organizzati, che sapevano dire “noi” più che “io”. Oggi invece, nel tempo dell’individualismo sfrenato, anche i proletari si fingono imprenditori di sé stessi, convinti che basti “diventare virali” per riscattarsi. E intanto non si organizza più nulla che duri più di un video podcast e un breve reel.
Più crescono i canali alternativi, i profeti del “contro” che parlano da soli e per sé, più il potere si rafforza. Perché un’opinione senza confronto pubblico non è dissenso, è rumore. Una live urlata non è lotta, è spettacolo. E mentre il popolo si frammenta in monologhi e followers, il potere – quello vero – si consolida in silenzio, invisibile, invincibile. È un moloch che ci lascia parlare, ma solo per tenerci occupati.
Youtube, TikTok, Instagram, Facebook: sono il nuovo carnevale. Ti lasciano urlare, ti danno l’impressione di contare, ti permettono di mostrare dov’eri in vacanza, o quanto è bella la tua lasagna in mensa. Ma intanto sei più schiavo di ieri. E peggio: nessuno ti possiede, perché nessuno si assume la responsabilità di te. Il padrone di ieri almeno ti vedeva. Oggi sei un codice utente. Nessuno ti garantisce nulla, e in cambio ti viene concesso di sognare la libertà di dire la tua – ma in uno spazio dove nessuno ascolta davvero.
Entrate in un supermercato. Guardate come vi sorridono luci e musica. Sentite quella serotonina di plastica che vi consola. Siete soli con le vostre idee, che tanto capite solo voi. Siete convinti che basti “pensarla giusta” per cambiare qualcosa. Ma non scalfite neppure la vernice dorata del palazzo del pane secco in cui riposate male.
Il Primo Maggio non è una festa. È un giorno di lutto per ciò che abbiamo perso: la capacità di essere insieme, di costruire un “noi” più forte del rumore, più resistente del mercato. Un giorno per capire che senza coscienza collettiva, senza organizzazione, senza visione, non siamo nulla più che schiuma sopra un mare dominato da chi, da sempre, non ha mai smesso di comandare.
Spegnete i video. Parlatevi. Organizzatevi. Prima che anche il diritto alla malinconia vi venga monetizzato.