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Dalla deumanizzazione alla deindividuazione del prigioniero

Francesca Moretti

DiFrancesca Moretti

Giu 5, 2022

“Il più sicuro ma più difficile mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione”.

Già nel Settecento il giurista Cesare Beccaria aveva intuito dove bisognava puntare per provare a sradicare il male dalla società. Si sono posti sulla sua stessa scia i nostri padri costituenti, infatti l’articolo 27, comma 3 della Costituzione italiana recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dunque le punizioni non devono mortificare la dignità umana, e non sono nemmeno ammesse forme di tortura. Fa da eco all’articolo 3 della Costituzione, l’articolo 3 del CEDU, ossia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in esso si legge che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Eppure ad oggi si leggono e/o si ascoltano fatti di cronaca che rivelano tutt’altro: comportamenti disumanizzanti e violenti agiti nei confronti dei prigionieri. Un fenomeno non frequente, tuttavia noto, che verosimilmente può essere spiegato attraverso il concetto di deumanizzazione della persona reclusa. Ė necessario bussare alla porta di alcuni psicologi affinché con il loro acume ci chiariscano tale fenomeno.

Lo psicologo canadese Albert Bandura prova a spiegare la deumanizzazione attraverso la teoria del disimpegno morale, ossia quel processo mentale attraverso cui coloro che hanno violato una norma provano in vari modi a ridimensionare o addirittura a giustificare l’azione trasgressiva commessa. Ė da sottolineare la difficoltà di assunzione di responsabilità del proprio agito da parte dell’attore.
Il concetto di deumanizzazione è la negazione dell’umanità altrui, quindi il carnefice per evitare di provare senso di colpa reinterpreta il suo comportamento, e nega l’umanità della sua vittima. Un esempio eclatante del processo di deumanizzazione lo riscontriamo nei campi di concentramento, non a caso Primo Levi ha scritto: “Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo”. Lo scrittore ha sperimentato sulla propria persona il fenomeno della negazione della propria umanità, è stato trattato come un oggetto e non da essere umano. La sua psiche è stata profondamente segnata dagli abusi subiti, a tal punto, che, dopo essere stato il testimone narrante delle sevizie e maltrattamenti compiuti nei lager di Auschwitz, secondo alcuni, si è tolto la vita gettandosi dalla tromba delle scale dello stesso palazzo in cui viveva a Torino. Nell’opera “I sommersi e i salvati”, Levi si interroga “Perché io?”, perché gli altri sono morti e io mi sono salvato? Paradossalmente nelle persone soggette a torture si genera il senso di colpa dell’essere sopravvissuto. Per altri, invece, la sua morte è solo stata una tragica fatalità. A distanza di anni, la dinamica della caduta non ha trovato ancora una spiegazione plausibile. La scomparsa dello scrittore è tuttora avvolta dal mistero.
Al concetto di deumanizzazione è correlato quello di deindividuazione, entrambi i fenomeni sono stati studiati dallo psicologo statunitense Philip George Zimbardo, il quale avviò negli anni Settanta un esperimento di prigionia simulata noto come Effetto Lucifero.
Perché Lucifero? Verosimilmente per l’analogia tra l’esito dell’esperimento e la storia di Lucifero, ossia il portatore di luce, un angelo meraviglioso e splendente precipitato negli abissi per essersi voluto porre al di sopra di Dio.
Tutto ha avuto inizio presso il Dipartimento di Psicologia dell’università di Standford in California, all’esperimento hanno preso parte 24 persone, scelte in modo accurato, ossia senza patologie psichiche, non avvezze all’uso di sostanze stupefacenti e senza precedenti penali.

Per due settimane i 24 prescelti sono stati divisi in 2 gruppi: 12 prigionieri e 12 guardie e, roba da non credere, queste ultime hanno finito per agire comportamenti violenti nei confronti dei finti carcerati. Le conclusioni tratte dell’esperimento, e va da sé che lo studio ha avuto conseguenze tutt’altro positive, dunque, gli esiti finali sono stati che il processo di deindividuazione porta a una trascurabile coscienza di sé e di contro a un’eccessiva identificazione con quelli che sono gli obiettivi e i comportamenti del gruppo.
Le guardie sono precipitate nell’abisso del male proprio come Lucifero. L’esperimento fa capire anche che negare l’umanità dell’altro è un pericolo in cui possiamo incorrere facilmente, e il comportamento violento, o se vogliamo il nostro lato luciferino è fortemente manipolato dal contesto in cui viviamo e/o lavoriamo.

VIDEO : L’esperimento carcerario di Stanford e l’effetto Lucifero – esperimento di Zimbardo a Standford

Psicologia sociale 2. L'esperimento carcerario di Stanford e l'effetto Lucifero

Francesca Moretti

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